Bolle di Tsunami, la ragione del dolore
Nel divenire di un dolore pungente si smette di essere esanimi, per restituirsi vivi, nudi, alla
crudezza di un tormento, arresi nel tentativo di esistere, ancora e di più, diversi. In attesa di una
tregua che non sarà pace, ma appannaggio di un fugace sollievo prima della presa di coscienza del
proprio cambiamento.
Disimparare la cultura del benessere – intesa come fuga dalla sofferenza – non è facile. Alcuni
hanno individuato la scappatoia nei meandri dell’epochè, preferendo l’apatia e la sospensione del
giudizio, al dolore. Allarme impietoso della nostra finitudine, misera imperfezione e caducità. Altri,
invece, gli riconoscono il diritto di parola, la possibilità di essere coscienza. Tra questi, lo psicologo
e psicoterapeuta Michele Spaccarotella, autore di Bolle di tsunami, che ha deciso di raccogliere in
una pubblicazione la storia dei dolori, tracciandone diverse e tormentate fisionomie: gli abissi
silenziosi della solitudine, i disperati pianti a cui sembra nulla possa far seguito, le crepe che
lacerano la carne per liberare il campo a vita inedita e inconsapevole, ancora.
Spaccarotella si avvale di varie forme letterarie, dalla poesia, agli aforismi ai testi brevi. Riflessioni
scritte nell’arco di 25 anni, che solo ora trovano il coraggio della vulnerabilità nella condivisione.
Una sorta di breviario del dolore, tramite il quale qualsiasi lettore riesce a dedicarsi una carezza, un
sorriso, una lacrima, a far entrare un soffio vellutato dentro al proprio rifugio. Nella sua mappatura
scoperta, è nudo e solo in questo modo offre all’altro la possibilità di specchiarsi nella vita di un
estraneo, che calpesta strade sconosciute, ma che racconta i granelli invisibili del suo buio come se
avesse prima guardato i nostri.
Bolle di tsunami è una raccolta in controluce: disvela l’uomo dietro l’ombra del terapeuta. Non solo
porto sicuro, anelito di speranza, ma persona in divenire. Dentro e fuori la relazione. Intero, solo
perché funambolo in mezzo ai cocci: «Penso che la sensibilità si trasformi in fragilità quando ci
preoccupiamo di nascondere invece che di proteggere. Perché quando sei solo in grado di
nascondere, puoi coprire fino a soffocare. Quando sai proteggere, valorizzi» (p. 121).
Durante la presentazione, il libro è stato definito “un’opera rivoluzionaria”: ci autorizza alla libertà,
legittima il malessere come stato dell’umano, ci emancipa dal pudore. Rende dritta la sofferenza,
dignitosa. È esercizio di condivisione. «Eppure in questo mare di buoni propositi riesco sempre a
inciampare in un’immagine. Quella di una zampa di tigre, dal fondo di un pozzo, che tenta di
afferrarmi quando guardo giù. Che mi viene a reclamare. Come se il mio posto fosse lì sotto» (p.
78).
E a mia volta allora riesco ad ammettere che, in una piazza gremita di persone, le lacrime che mi
segnavano il viso hanno lavato via la mia disperazione, legandola al loro passaggio distratto,
maldestro, sereno, agitato. Hanno fissato il ricordo di me in un punto, fisico ed esistenziale, mentre
vivendo, attraversavo un dolore che non poteva essere altrimenti, perché aveva ragione. Era lì,
feroce, ad aspettare di essere pronunciato. Al nome corrisponde un’identità, una postura, è la
ragione del dolore. Un privilegio comprenderla, uno strazio invano il tentativo di abortirla. Il dolore
pretende cura, ha bisogno di essere amato per convincersi a lasciarci andare. Ci insegna la premura
dell’esistere: sposta i margini, copre i profumi, ma poi – diventato lieve – l’indistinto della
sofferenza svela la nitidezza dell’appercerzione. Un esistere pieno, audace.